acqua scura, acqua chiara
Da Tabatinga, quasi un mese fa, ha avuto inizio una delle esperienze che aspettavamo con più trepidazione.
Quando prima della partenza parlavamo della discesa del Rio delle Amazzoni, sembrava fosse un’impresa quasi infattibile, difficile da decifrare, da mettere in pratica, magari in condizioni eccessivamente al limite.
Oggi possiamo dire che quando sei lì, sul barcone della speranza, con qualche altro centinaio di brasiliani e una manciata di turisti stipati come sardine, sovrapposti gli uni sulle amache degli altri, a dispetto dello spazio immenso di acqua e verde che ti circonda fuori, ti chiedi se non sia troppo poco poetico. Quando però al momento del tramonto, ti isoli dal fragore rimbambente delle casse, ti sporgi dal parapetto e vedi quanta acqua e quanto cielo ti sei lasciato alle spalle, ti rendi conto di quanto sarà indimenticabile.
Lo spazio, o barco, si trasforma lento e spietato in una burrascosa piazza di paese, ubriachi, giovani lucciole brasiliane che intrattengono l’equipaggio, voci baritonali che ti svegliano ad ogni singola sosta notturna, gruppetti di stranieri che accomunati da un romanticismo tipicamente turistico, dopo due giorni di riscaldamento, si sciolgono in chiacchiere da vecchi amici di scuola per poi ritrovarsi, casualmente, nella piazza di Manaus.
Il tempo sul Rio è scandito dall’approssimarsi dei caboclo, che nelle loro canoe inseguono affannati il lancio dalla barca di misteriosi sacchetti di plastica, che poi scopriamo essere pieni di vestiti, cibo, denaro, e anche dal ritmo meno placido e più colorato delle grandi città Manaus, Santarem, e Belem.
A Manaus, la prima interruzione dopo quattro giorni di navigazione, indossati gli abiti di gala, già sfoggiati a Panama, ci aspetta il Festival di Danza Contemporanea nel più grande Teatro dell’Opera del Brasile, nel bel mezzo dell’Amazzonia. Ma la nota più piacevole è calpestare la città su piastrelle in bianco e nero e sognare di camminare sulle acque chiaroscure del Rio al momento del loro Encuentro.
A Santarem, in realtà Alter do Chão, sperimentiamo per la prima volta l’ospitalità con couch surfing dalla giovane Tabata e iniziamo qui a sentire musica per le nostre orecchie con un concertino di carimbò e poi a Jamaraqua non possiamo fare a meno di correre sulla sabbia che, bianchissima, scricchiola come neve di fronte ad un mare ondoso d’acqua dolce.
La terza e ultima tappa è Belem, dove il Rio, poderoso come non mai, sputa nell’Oceano Atlantico i suoi 300 milioni di litri d’acqua al secondo.
Qui l’Ilha Marajò, grande come la Svizzera, si dispiega in uno splendore che ti incanta tra strade di sabbia, bufali d’acqua, paludi e maree puntuali come un orologio svizzero.
In ogni sosta conosciamo qualcosa in più dell’Amazzonia fino a collezionare un’infinità di nuovi nomi a partire dalla foresta primaria fino ad arrivare al mercado Ver-o-Peso di Belem: Açai, Araçá, Buriti, Abacaxi, Graviola, Manga, Mangaba, Tucumã, Uxi, Acerola, Bacuri, Cupuaçu, Goiaba, Muruci, Taperebá. Non si tratta di nomi di tribù amazzoniche, ma sono frutti, succosi, squisiti, viscidi, acidi, grandi e minuscoli, l’espressione massima della “bontà” materna della natura amazzonica.
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